La solitudine della Persona in difficoltà

 

La solitudine della Persona in difficoltà Venerdì 27 novembre presso l'Istituto Salesiani la dott.ssa Daniela Bordonaro ha tenuto una conferenza ai Volontari Avulss su "La solitudine della Persona in difficoltà", qui di seguito se ne riporta una sintesi. La relazione dal titolo, apparentemente semplice comporta enormi implicazioni psicologiche. Il malato, di qualunque malattia si tratti, sia essa fisica che psichica, si sente solo con la propria malattia, spesso anche a causa dello stato di passività nel quale le regole di funzionamento del Servizio Sanitario lo pongono. Durante la nostra vita, siamo abituati a prestare poca attenzione al nostro corpo che consideriamo una specie di scafandro silente e meccanico, una specie di contenitore della mente , utile solo per svolgere le funzioni fisiologiche abituali; nessuno di noi presta attenzione ai battiti del proprio cuore o al numero e alla profondità dei propri respiri. Solo quando questa macchina, considerata perfetta, si guasta, cominciamo a prestargli attenzione. Il nostro corpo è il primo elemento con il quale entriamo in contatto fin dalla nascita. All’inizio della vita il bambino non ha alcun rapporto con il mondo esterno, è concentrato e consapevole soltanto di ciò che avviene all’interno del proprio corpo, le uniche sensazioni percepite sono quelle spiacevoli (ho un dolore , un fastidio ) e piacevoli (ho una sensazione di benessere ). Perché il malessere si trasformi in benessere è necessario un intervento esterno, in genere la madre, ma il neonato non ne ha coscienza. Grazie a queste primitive sensazioni e percezioni corporee ognuno di noi nella prima fase della vita struttura una propria immagine corporea. Con il termine “immagine corporea“ intendiamo, quel quadro mentale che a poco a poco ci formiamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi. Gli schemi e le rappresentazioni mentali che il corpo ha di se stesso, in relazione allo spazio, al tempo e alle altre persone. Man mano che il bambino cresce, gli organi di senso si sviluppano e si affinano, egli comincia a scoprire il mondo che lo circonda fatto di volti, quello della madre prima di tutto, di suoni, di voci, di odori e rumori. Attraverso il movimento del corpo il bambino scopre lo spazio circostante e soprattutto le coordinate spazio temporali. Ma la base costituente della mente umana sono le emozioni e gli affetti. Come diceva Winnicott, un grande psicoanalista, ad un certo punto della crescita è la mente che si installa nel corpo, non il contrario. Tutto questo appare evidente ad es. in adolescenza, il bambino improvvisamente comincia ad allungare velocemente, cambia la voce, gli organi genitali si trasformano, alle bambine arrivano strani sanguinamenti che come arrivano passano ma poi tornano, crescono i seni, mettono adipe. L’adolescente è stordito, non si riconosce più. Saltano i parametri del suo schema corporeo, e soprattutto per la prima volta nella vita non è in grado di prevedere quando finirà questo cambiamento e come sarà alla fine di questo cambiamento. Questa difficoltà previsionale porta con se emozioni come una profonda insicurezza, ansia, tensione nervosa e difficoltà di identità. Dal corpo che cambia arriviamo all’identità che cambia. Tutti gli adolescenti parlano di un nuovo corpo. Il corpo è e non è lo stesso, non sarà più quello di prima ma contemporaneamente è quello di sempre, almeno sembra funzionare sempre allo stesso modo. In questa fase della vita le maggiori sofferenze psichiche degli adolescenti passano attraverso il corpo (anoressie, bulimie, obesità esogene, tutte quelle sintomatologie di attacco al corpo come il cutting ( procurarsi volontariamente dei tagli ). Il corpo adolescenziale può essere abbellito dai tatuaggi, utilizzando la propria pelle come memoria, oppure può essere penetrato dai piercing, ausili esterni che ne "completano" l’identità. Il corpo può diventare il luogo attraverso il quale manifestare un disagio ed una sofferenza, o esprimere l’essere individuo di ognuno di noi, cioè persona distinta dalle altre. I soggetti psicosomatici risultano incapaci di pensare o di mentalizzare le emozioni ed usano ancora il corpo come unica valvola di sfogo; il dolore, l’angoscia , la tensione psichica prendono la strada del soma e ritornano ad essere contrazioni di organi, di muscoli, sfoghi della pelle (psoriasi) ecc.. Ognuno di noi, credo abbia, almeno una volta nella vita, provato sul proprio corpo gli effetti di un’emozione come il dolore o l’angoscia, e spesso, nel linguaggio comune utilizziamo metafore di sintomi corporei: "ho sentito un pugno allo stomaco, ho un tuffo al cuore, ecc…" Il corpo è dunque la base della costruzione dell’identità, del nostro essere persona unica ed irripetibile, questa premessa sulla relazione mente corpo ci serve a comprendere meglio cosa avviene in un individuo il cui corpo, per qualunque motivo, più o meno improvvisamente si ammala. Pur essendo ognuno di noi consapevole razionalmente del fatto che non siamo immortali, nel profondo del nostro inconscio coltiviamo sempre un residuo infantile di un pensiero onnipotente e di immortalità. Questo pensiero in se non è necessariamente negativo. In fin dei conti ci permette di vivere serenamente la nostra vita. Nessuno di noi credo potrebbe alzarsi la mattina ed affrontare la giornata se ad accompagnarci fosse il pensiero costante della fine imminente! Ma quando nella nostra vita irrompe la malattia tutto questo equilibrio faticosamente costruito negli anni salta. Improvvisamente ci rendiamo conto di quanto l’idea dell’immortalità sia soltanto un’illusione e il nostro corpo, macchina perfetta e contenitore silente, ci ha traditi. Spesso la prima reazione ad una diagnosi di malattia, qualunque essa sia è di incredulità e di rabbia. Spesso nelle prime fasi diagnostiche assistiamo all’uso massiccio di un meccanismo di difesa mentale che noi psicoterapeuti chiamiamo negazione. Il paziente si rifiuta di comprendere, l’affetto viene negato ed anche la situazione clinica viene negata. Si comincia la ricerca di altri pareri medici, nella sottesa speranza di trovare lo specialista che dica che non è vero nulla, ci si "dimentica" o si posticipano indagini cliniche, nel disperato tentativo di ricostituire l’equilibrio precedente. Il pensiero sotterraneo è "non è successo nulla, non è cambiato niente". Contemporaneamente si sviluppa una profonda rabbia nei confronti di questo corpo che improvvisamente sembra sfuggito al controllo della mente, che si rifiuta di fare quello che noi gli diciamo di fare. A queste emozioni iniziali, quando tutte le difese tentate per prendere le distanze dal problema falliscono, con la presa di coscienza del proprio stato compare la solitudine. Entrare in contatto con una malattia vuol dire accettare la vulnerabilità e l’imperfezione del proprio organismo, vuol dire imporsi una riflessione sul significato che diamo alla vita e al nostro agire nel mondo, al nostro modo di vivere, al nostro modo di guardare il futuro e anche alla nostra scala di valori. Ma vuol dire anche fare i conti con uno schema corporeo che si deve modificare e, come avviene in adolescenza, nessuno di noi sa come sarà alla fine di queste modificazioni. Ma la diagnosi di una malattia , non dobbiamo dimenticarlo mai, coinvolge anche la famiglia del malato. Anche li saltano gli equilibri e le modalità di mettersi in relazione dei membri della famiglia. Ci sono famiglie, per cui la malattia di un proprio caro è una notizia che provoca un dolore intollerabile e oppongono a questo pensiero un rifiuto netto ed incrollabile, ad es. continuando a fare la vita di sempre anzi più affaccendati di sempre. Questo genera nel paziente una profonda solitudine. Egli si ritrova solo cominciando a vivere come profondamente estraneo il luogo che considerava più familiare. La solitudine diventa allora sempre più profonda e porta le persone a rinchiudersi dentro un involucro protettivo con la speranza che questo possa proteggerli da tutte le intrusioni della vita. Da un male del corpo diventa un male della psiche, il paziente sente che fra lui e il resto del mondo si è scavato un profondo solco che lo allontana ogni giorno di più dalle relazioni umane e come disse una volta un mio paziente : "Ho come la sensazione di stare dietro un vetro della finestra a guardare di sotto il mondo che continua a correre di qua e di là ed io sono fuori, lontano, non riesco a sentirne neanche i rumori, chiuso un una stanza dalla quale non riesco ad uscire". Esiste poi la solitudine all’interno delle strutture sanitarie . Qui, spesso, quello che manca è il rapporto umano. Per i medici i malati sono spesso dei casi clinici, difficilmente delle persone. Lo dico senza nessuna nota di accusa, anche perché credo che questo atteggiamento dei medici non sia affatto una manifestazione di insensibilità ma al contrario, un modo di difendersi dall’angoscia di morte e dal dolore al quale sono continuamente sottoposti. Al contrario degli psicologi, che fanno su di loro una lunga formazione, i medici sono assolutamente scoperti dal punto di vista psicologico e ricorrono come tutti a funzionamenti della mente di tipo difensivo come la spersonalizzazione del malato, meccanismo psichico che permette loro di sopravvivere. Ma questo genera nel paziente un aumento di solitudine perché essendo identificato soltanto con la propria malattia egli perde di fatto la propria individualità di persona. Anche il non poter avere una relazione privilegiata con un medico, ma l’essere costretto ad avere rapporti con più figure professionali aumenta questa sensazione di depersonalizzazione e di non riconoscimento. Lo stato di malattia, inoltre, diminuisce drasticamente le relazioni sociali delle persone. Tutti noi, in fondo, abbiamo paura delle malattie e delle sofferenze degli altri e tendiamo ad evitare di sentire o vedere persone che soffrono, spesso con la scusa che possiamo creare disturbo, ma ognuno di noi dentro di se sa bene che evitiamo a noi stessi di creare disturbo. Ci diciamo: "Cosa dovrei digli poveretto"? Nessuno di noi pensa mai che invece chi ha una sofferenza ha un gran bisogno non di ascoltare, ma di parlare, di dire e di poter sentire di avere ancora legami affettivi. Io credo che a questo punto possa essere inserito il ruolo del volontariato, la cui funzione è secondo me proprio quella di ricoprire il ruolo di anello di congiunzione fra il malato e la realtà circostanze, sia essa quella del SSN, della famiglia, del sociale, ecc… E credo che proprio questo sia il vero successo del volontariato nelle nostre realtà. Il volontario è colui che, al contrario di quello che avviene nella vita del malato, sceglie di andare e non si pone il problema di cosa dire perché è consapevole del fatto che il suo ruolo non è quello di dire ma di ascoltare. Ed è nell’ascoltare che si restituisce al malato la dignità della persona. Il suo ruolo non sta tanto nel fare quanto nell’esserci e nell’accompagnare. Il volontario può levarsi l’orologio ed è proprio questa la sua peculiarità, lui ha il tempo. Credo che anche la comunicazione verbale del volontario abbia il suo peso. Mi è capitato nelle corsie degli ospedali, ora per fortuna molto meno, di sentire il personale paramedico rivolgersi ai malati con eccessi di confidenza, magari con l’ottima intenzione di dimostrarsi più affettivi. Ultimamente questo avviene sempre più spesso anche con i pazienti extracomunitari. Il diverso colore della pelle autorizza le persone a passare subito al tu. Credo che questo accorciare le distanze, soprattutto perché monodirezionale, difficilmente venga percepito come una maggiore vicinanza emotiva, ma come una mancanza di riconoscimento della dignità della persona, visto che in genere nella nostra cultura noi non usiamo farlo. Comunicare come normalmente facciamo nella vita di tutti i giorni, passare al tu solo se concordato, chiedere il permesso per entrare in una stanza, non imporre la propria presenza ma avere la capacità di saper aspettare, sono tutte piccole cose che contribuiscono a restituire all’altro la coscienza di essere riconosciuto come individuo. Anche nella presa in carico della famiglia di un malato la funzione del volontario diventa centrale. In questo caso la sua presenza può favorire il riallacciarsi di legami affettivi che la sofferenza ha interrotto, può restituire dignità di ruolo a coloro che condividono il dolore con la persona malata. Anche nella difficile fase del ritorno alla vita cosiddetta normale il volontario può svolgere un ruolo importante. Molto spesso, sembra un paradosso, le persone faticano ad abbandonare il ruolo di malato. Non si fidano più del proprio corpo e temono che abbassare la guardia li possa esporre a rischi di ricadute. Spesso assistiamo allo sviluppo di vere e proprie sindromi ipocondriache od ossessivo compulsive. In questo caso il volontario nella sua funzione di ponte con eventuali specialisti può rendersi conto di tutto ciò, di dove finisce la normale preoccupazione per una malattia importante superata e dove comincia la sofferenza psichica grave per la difficoltà a ricostruire un’immagine corporea integra e, facendo leva sul legame di fiducia instauratosi può provare ad indirizzarlo verso altri specialisti che possano accogliere le nuove sofferenze. La sua presenza costante vicino alle persone che soffrono può diventare anche una fonte di stimolo anche per le istituzioni e per il personale sanitario. Non dobbiamo dimenticare infatti, anche un’altra solitudine non ancora sufficientemente evidenziata che è quella che riguarda il medico, al quale la messa a disposizione di una quantità di dati concernenti i pazienti da parte degli strumenti tecnologici, nonché tutte le incombenze burocratico-amministrative che gli sono richieste, finiscono col limitare i rapporti col malato e minare anche le proprie sicurezze identitarie. Per concludere questa mia disamina, che riconosco essere necessariamente incompleta visto la vastità del tema, vorrei porre l’accento sull’importanza di quello che il volontario fa stimolando in voi anche un lavoro con voi stessi . Il tema della solitudine del malato è un tema complesso. Accostarsi alla solitudine vuol dire anche vivere la paura di un contagio emotivo. Quando ci avviciniamo alla solitudine di una persona, lo facciamo per la persona o per contrastare la nostra paura della solitudine? Credo che ogni persona che svolga una funzione di aiuto, sia essa un professionista o un volontario, debba imparare ad ascoltarsi e a farsi delle domande. Molti di noi si avvicinano agli altri con il sincero obiettivo di aiutarli, ma forse anche inconsciamente di aiutare se stessi. È quello che noi psicoanalisti chiamiamo relazione tranfert-controtranfert. Ogni relazione umana suscita in ognuno dei membri della coppia in relazione delle emozioni, dei sentimenti che hanno a che fare sia con la relazione attuale che con il nostro vissuto personale e passato. Se ne siamo consapevoli riusciamo a fare un lavoro migliore per l’altro e per noi stessi. Tutto ciò che facciamo per l’altro o semplicemente pensiamo per l’altro può avere delle conseguenze rilevanti sia per l’altro che per noi stessi. La disponibilità ad ascoltarsi, a riconoscere i propri limiti emozionali (non tutti siamo in grado di sostenere l’incontro con tutti , esistono persone e situazione ad es. che entrano troppo in risonanza con elementi della nostra vita personale e che non ci permettono di essere noi stessi fino in fondo nella relazione. Questo è normale e capita a tutti, basta riconoscerlo) permette al volontario il passaggio dalla spontaneità alla consapevolezza, di essere vero nelle relazioni, di guardare l’altro e potersi fare guardare, di poterle vivere senza farsi invadere e sovrastare. Perché questo possa avvenire è importante che anche il volontario non sia lasciato solo, che possa avere momenti di sostegno, di incontro, di scambio e di sfogo anche con gli altri volontari, perché la solitudine che ogni malato inevitabilmente ci mette dentro possa essere condivisa ed elaborata.

 

 

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